Home » Lifestyle » “Un incidente mi ha quasi uccisa, ma sono riuscita a rinascere”
Laura è stata vittima di un terribile incidente ma con grande forza è riuscita a rinascere
Guidando la sua Pegeout 106 per andare al lavoro, quella mattina di 16 anni e mezzo fa Laura è vittima di un terribile incidente, lungo la strada “brutta”, a doppio senso, che da Capolona porta a Castiglion Fibocchi. “Per fortuna non mi ricordo niente di quello che successe – racconta a Luce! con voce calma -. So solo che, uscita da una curva, mi sono trovata un camion davanti e ho frenato. La macchina ha perso il controllo ed è andata ad incastrarsi sotto la pedana della cabina del camionista”. Laura si risveglia in ospedale, dopo 14 giorni di coma. Immobile, in una stanza in penombra, con una tracheostomia nella gola, il sondino naso-gastrico, flebo ovunque e tanto, troppo dolore in tutto il corpo.
“Ero senza ricordi, intontita dalla morfina. Avevo perso 3 litri e 800 ml di sangue, avevo 38 fratture in tutto il corpo. Non mi rendevo conto del tempo che passava, avevo perduto la memoria a breve termine. Mi facevo raccontare dalla mia famiglia cosa mi fosse successo, per esserne almeno consapevole”. Per Laura, che all’epoca aveva appena 31 anni, comincia un difficile percorso di riabilitazione che durerà tanto. “La prima doccia che sono riuscita a farmi da sola a casa è stata a distanza di due anni dall’incidente”. Per colpa di quello scontro i suoi sogni di giovane donna sono andati in frantumi e tutte le priorità della sua vita sono cambiate. Nonostante gli sforzi, Laura perderà un occhio e non recupererà mai l’uso di un braccio e della caviglia sinistra: “L’occhio mi era uscito dall’orbita ed era finito sopra la testa: il nervo ottico si era reciso e la vista persa – racconta -. Ho avuto 14 interventi in tutto e ho letteralmente dovuto rimparare a vivere. Ero giovane quando mi è successo. L’incidente, l’invalidità improvvisa e permanente, la vita stravolta per sempre. Tutto sembrava stonato fuori e dentro di me. Ma non mi sono arresa. Mi sono chiesta se la rabbia e la frustrazione mi avrebbero portato a qualcosa e l’unica risposta che ho trovato è stata no: anche se la vita mi ha messo con le spalle al muro, io ho scelto di alzare la testa e continuare a sorridere. Il mio non è né un sorriso falso né un sorriso ipocrita: devo semplicemente farmi piacere questa nuova realtà, anche se non somiglia più ad una realtà “normale”, neppure adesso che mi sono ripresa. Perché la fisioterapia e i controlli medici, per me, sono ancora all’ordine del giorno”.
Oggi Laura è autosufficiente, riesce a guidare e a lavorare. Ha sempre avuto una grande passione per la scrittura e in questi anni difficili è riuscita a portarla avanti pubblicando ben quattro libri, molto diversi tra loro. L’ultimo, appena uscito con Europa Edizioni, si intitola “Gli occhi addosso” e racconta la sua storia, fatta di sfide durissime ma anche di coraggio e di rinascita.
Laura, nei giorni terribili dopo il risveglio in ospedale, dove ha trovato la forza di combattere e di reagire? “Io non sono credente, perché in questi anni ho conosciuto troppa sofferenza inaccettabile; e non parlo solo della mia, anche di quella di altri ragazzi intorno a me. Ma se sono ancora in questo mondo è grazie a un mio caro amico, Stefano, un amico che era morto a 23 anni, molto tempo prima del mio incidente, per colpa di un tumore ad un testicolo che lo aveva strappato alla famiglia e al suo bambino di soli sei mesi. Stefano mi è stato vicino al momento del risveglio dal coma, lo vedevo vicino a me, mi parlava. Mi diceva ‘Senti dolore? Pensa a quanto sono stato male io per colpa della malattia e dimmi quanto stai male tu ora’. Nella testa avevo tanta confusione, non riconoscevo più il confine tra la vita e la morte. Uscire da quel tunnel è stato durissimo, ma il mio amico mi ha dato la forza. Quando raccontavo ai miei parenti che Stefano mi stava vicino, loro rispondevano che lui era morto da dodici anni, e io non capivo come facevano a non credermi, a non vederlo quando veniva in stanza da me. Alla fine, sono comunque certa di una cosa: Stefano ora sta bene, e chi muore va in una dimensione bella, serena”.
Come ha fatto a riacquistare la sua autosufficienza? “Lavorando duramente, affrontando lunghissimi percorsi di logopedia e fisioterapia. Mi sembrava di non vedere mai una fine. Ero lontano da casa perché fortunatamente i miei mi avevano portato nel grande Centro riabilitativo di Correggio, dove per anni sono stata seguita benissimo. L’incidente, comunque, mi ha fatto perdere un occhio, un braccio lo uso a metà (è bloccato a 90 gradi), ho pochissima sensibilità su tutta la parte sinistra del corpo. Sono diventata anosmica: ho perso cioè il senso dell’olfatto. Ho una caviglia bloccata. Zoppico. Ho dovuto decidere io di bloccarmi la caviglia, ma avevo un dolore talmente forte dopo la prima operazione subita, che la decisione è stata presa necessariamente. Il dolore c’è sempre, ma ad un livello più accettabile. Però una caviglia bloccata vuol dire mai più scarpe col tacco, mai più mettermi in ginocchioni, mai più correre, ad esempio. Significa dover stare attenta ad ogni passo che faccio: se trovo una buca o una semplice irregolarità nella strada cado, perché una caviglia bloccata non ha capacità di adattamento. Insomma, la vita ha provato a fermarmi ma non ci è riuscita. Dopo due anni dall’incidente sono tornata a casa per qualche mese, prima di nuovi interventi e lunghi momenti riabilitativi. L’uomo con cui convivevo da ben nove anni e mezzo se n’è andato dopo aver capito che non sarei mai più tornata ‘quella di prima’: così mi diceva. E anche quello è stato un trauma grande da superare”.
Cosa successe al camionista con cui si è scontrata? “Niente. Dopo sei anni di udienze il giudice mi diede torto al cento per cento. Dai rilievi era emerso che stavo guidando a 50 km orari, ossia il limite consentito su quella strada a doppio senso, che peraltro non ha nemmeno la linea di mezzeria per separare i due sensi di marcia. Una strada larga appena 4 metri e 20 cm, mentre il camion da solo ne occupava 2,50. La segnaletica indicava ‘strada sdrucciolevole’ e il giudice stabilì che, poiché la sera prima aveva piovuto, avrei dovuto essere una guidatrice più prudente e andare più piano. Non ho ricevuto alcun indennizzo. Per fortuna, quella mattina stavo andando al lavoro, perciò mi hanno almeno riconosciuto una pensione di invalidità”.
Quali sono le cose che la irritano di più? “Le frasi fatte della gente, del tipo ‘Non so come fai a sorridere sempre e ad essere così coraggiosa’, oppure ‘Ora finalmente puoi lasciarti la storia dell’incidente alle spalle e vivere una vita normale’, come se la mia vita, scandita da visite di controllo e fisioterapia, oltre a tutte le problematiche fisiche potesse mai tornare normale. Ma non meno irritante è sicuramente la burocrazia assurda che ruota intorno alla disabilità, e il fatto che non si possa chiamare un disabile col suo nome. Non mi piace essere chiamata “diversamente abile”, perché quando ero normodotata nessuno mi chiamava “parimente abile”. Inoltre, essere disabile non è una vergogna”.
Parliamo del suo ultimo libro… “Gli occhi addosso. S’intitola così perché gli occhi che mi ritrovavo puntati addosso dalla gente, le prime volte che uscivo di casa, mi facevano male. Forse l’operazione psicologicamente più difficile, fra le poche che ho potuto decidere io di fare, è stata proprio quella relativa all’occhio: toglierlo e mettermi una protesi. Ho dovuto toglierlo perché la palpebra stava chiusa e, ovviamente, non è normale vedere una persona con un occhio aperto e un occhio chiuso. Trovare il coraggio di toglierlo e convivere con una protesi è stato molto difficile. Adesso, con la protesi e quattro interventi maxillo-facciali, la palpebra sta aperta quasi quanto l’altra. Quasi, non proprio quanto l’altra, ma di occhi che si soffermano sui miei occhi adesso ce ne sono di meno. È stato molto difficile imparare a vedere con un solo occhio: metà mondo non lo vedi più, perdi la profondità, quindi, ad esempio, quando verso l’acqua nel bicchiere, se non alzo il bicchiere facendogli toccare il collo della bottiglia, l’acqua cade sulla tavola. È stato difficilissimo rimparare a leggere perché, quando andavo accapo, difficilmente ritrovavo la riga giusta. Ancora più difficile è stato ricominciare a truccarmi: quando mi trucco la palpebra destra, me la trucco al buio. Io ero ancora giovane ed essere ridotta così stonava con la mia età: avrei potuto, potrei, arrabbiarmi col destino, ma alla fine non risolverei un bel nulla. La mia vita è questa e non la posso cambiare, ma posso trovare la forza di andare avanti. Ho imparato a riprendere in mano la mia esistenza, esattamente da dove l’incidente l’aveva interrotta. Ho conseguito la seconda laurea con lode in Scienze dell’amministrazione, ho ricominciato a lavorare part-time, seppur come disabile, in un’azienda orafa ad Arezzo e ho avviato un sito internet da cui propongo traduzioni come libera professionista in inglese, francese, tedesco e spagnolo (www.lauracapaccioli.it)”.
Quando presenterà il suo libro? “La prima presentazione è stata al Centro eventi di Subbiano, lo scorso 22 gennaio, giorno del mio compleanno. C’erano 310 persone: è stato bellissimo. La prossima presentazione è in programma domenica 2 aprile alle 17, nella libreria Edison di Arezzo. Ma il libro si può trovare anche nel circuito di vendita online”.
Ha pubblicato anche altri libri, prima di “Gli occhi addosso”… “Il primo nel 2004: ‘Ingiroparlando’, un frasario/dizionario in inglese, spagnolo, francese e tedesco, per aiutare chi deve viaggiare all’estero e uno strumento di lavoro per agenzie di viaggio, ad esempio. Il titolo del secondo libro, ossia la tesi di laurea che ho deciso di auto-pubblicarmi, è ‘Corporeità, motricità e simbolico: il linguaggio mimo-gestuale nelle comunicazioni cinesica e prossemica’. Parla del linguaggio non-verbale e studia lo spazio che mettiamo fra noi e gli altri nelle varie interazioni. Il terzo invece è un libro di racconti: Il viaggio della maturità ed altri racconti. Questo l’ho pubblicato nel 2017 e, se vuoi ridere, ti dico che l’ultimo racconto lo avevo ambientato nel 2040 e avevo scritto che ci sarebbe stata didattica a distanza e smart-working, usando altri termini, naturalmente, ma non avevo previsto anche il Covid! Una curiosità: ho scritto anche un racconto dal titolo ‘Buio. Buio e poi luce’, appositamente per partecipare ad un concorso di narrativa promosso dal comune di Cortona. Era stata la moderatrice della presentazione de Il viaggio della maturità ed altri racconti che avevo fatto in precedenza a Castiglion Fiorentino a contattarmi per chiedermi di iscrivermi, ma al tempo non avevo nulla di pronto. Inizialmente le risposi che non si poteva scrivere qualcosa su richiesta ma, ascoltando il suo terzo messaggio vocale, ho avuto l’illuminazione: ho fatto il confronto del fermo della mia vita con il coma e del fermo della mia vita con il lockdown imposto dal Covid. Eravamo 28 ed io mi sono classificata seconda”.
Qual è il messaggio che vuole mandare con Gli occhi addosso? “Vorrei riuscire a passare più di un messaggio. Innanzitutto vorrei sensibilizzare le persone a ricordarsi cosa significa la parola ‘rispetto‘. Un capitolo del mio libro l’ho intitolato ‘Ti auguro di averne diritto’. È rivolto a tutte le persone che occupano un posto auto disabili senza tesserino. Così come è rivolto a chi mi punta addosso occhi investigativi quando chiedo di poter passare perché mi fa tanto dolore e fatica stare in piedi nelle file, ad esempio. Vorrei altresì sensibilizzare chi viene pagato per fare la viabilità: se per salire su un marciapiede c’è bisogno di uno scivolo, un altro scivolo serve per scendere dal marciapiede. Per fortuna sono dovuta stare su una sedia a rotelle soltanto tre mesi ma, anche qui, vorrei che chi fa questi lavori provasse ad utilizzare una carrozzina: forse si renderebbe conto delle necessità, così come non dovrebbe essere troppo difficile capire che una carrozzina ha bisogno del suo spazio per passare e quindi, a metà marciapiede, non puoi metterci un albero o un cestino o un lampione. Poi, come ho scritto nel libro, quando questo spazio esiste, arriva il maleducato di turno che ci parcheggia. Vorrei sensibilizzare anche chi segue la segnaletica nelle strade. Il giorno dopo il mio incidente è stato messo in quella strada, per i camion grossi come quello che ho trovato io, il divieto di transitare se non sono segnalati. Comunque, per quanto la vita possa essere dura, difficile, ingiusta, per quanto ti possa sentire arresa, devi sempre trovare la forza per sorridere, perché così tutto diventa più facile… quasi bello. Sorridere e guardare avanti. Ogni giorno inizio la mia giornata con un bel sorriso, non mi faccio vincere dalla rabbia e dalla delusione: la vita riserva comunque delle belle sorprese…”.
Si riferisce al suo nuovo amore? “Sì. Ero scioccata dalla fine della mia precedente relazione. Mi dicevo cose come “con l’amore ho chiuso per sempre”. Invece ora ho trovato il fidanzato giusto, anzi, è lui che ha trovato me e sto vivendo una storia bellissima. Tutto è cominciato una sera qualunque. Andai a letto e, stranamente, non avevo voglia di leggere. Non sono per niente una donna ‘social’, eppure quella sera mi collegai a Facebook. Avevo 755 richieste di amicizia. Scelsi quale accettare in base alle foto delle persone, senza nemmeno leggere i profili. Riaprii Facebook una settimana dopo e trovai su Messenger 62 messaggi. Un certo Mirco di Cortona mi aveva scritto che ero carina e che gli sarebbe piaciuto conoscermi. Non avendogli risposto, mi augurò la buonanotte. Io gli risposi allora: ‘Scusa del ritardo di una settimana, ma buona notte anche a te’. Mirco era online e iniziammo a scriverci. Poi ci siamo conosciuti e ci siamo trovati! Diciamo che, grazie a lui, il mio libro ha un finale sicuramente più bello”.